Oro nel DNA - Parte prima.

 

Ricordi, sensazioni. Mi sembra ieri.  Una variegata collezione di percezioni, umanità e atmosfere ormai irripetibili,  ma che portarono a concetti, principi e solide basi tecniche, le stesse che permettono,  anche oggi, di praticare la passione che ci accomuna tutti. Recentemente ho voluto rieditare le nozioni fondamentali che avevo voluto condividere nel 1975, pubblicando una guida tanto scarna ed essenziale quanto completa di tutte le indicazioni per trovare davvero lʼoro nei nostri fiumi: “La ricerca dellʼoro alluvionale nei fiumi piemontesi”. La trovate nei link riportati.

Per parlare del “nostro” oro permettetemi però, un cenno sulle condizioni al contorno che provocarono, per necessità, una “gold rush”, tutta italiana, alla fine degli anni venti; seguita da una seconda, ben più recente e ludica, di cui voi appassionati siete i protagonisti.


(Cit.) Mussolini, nel 1926 annunciò una manovra deflazionistica fissando il cambio contro la Sterlina, allora moneta di riferimento, dalle 150 lire del 1925 alle 90 lire del 1926. Le esportazioni subirono una forte contrazione, il nuovo assetto monetario andò a favore delle grandi imprese e portò quelle piccole e medie verso il fallimento. Iniziò così un periodo di recessione interna in cui anche i costi sociali furono altissimi, tanto che i ceti meno abbienti subirono un taglio dei salari tra il 10 ed il 20%. Alle difficoltà economiche interne si aggiunsero quelle “importate” quando, a causa della crisi mondiale, negli anni tra il 1929 ed il 1932 la produzione italiana subì unʼulteriore contrazione tra il 15 ed il 25%.  http://www.sulleormedeinostripadri.it


Il lavoro nei campi diventava sempre meno conveniente, i contadini non avevano facile accesso al lavoro in fabbrica, ma la soluzione per coloro che ci provarono, era lì nella loro terra. Quindici lire al giorno o meno nei campi, venti per un grammo dʼoro: mezza giornata di lavoro quando andava bene. Nacque una moltitudine di cercatori. Lʼoro alluvionale del Piemonte, con il suo particolare aspetto appiattito dalla pressione del ghiaccio, è nel terreno, i fiumi erodono i campi e fanno il grosso del lavoro concentrando i materiali pesanti.  Il Malone, LʼOrco, la Chiusella, la Dora Baltea, e poi i fiumi del biellese al di là della Serra dʼIvrea, fino al Ticino e oltre. Cercare lʼoro per un giorno o un week end ti fa arrivare a fine giornata con la schiena a pezzi, tutti gli appassionati lo sanno, ma provate a farlo ogni giorno, per mesi, tanto per dire: da aprile a ottobre, per una quindicina di anni, vedrete che è unʼaltra cosa.

Non era un mestiere per vecchi.

Durante il conflitto  e fino al 1946 lʼoro incrementò notevolmente il suo valore, poi si stabilizzò. Nel dopoguerra, lʼindustrializzazione del paese e il successivo boom economico rese quel mestiere poco attraente anche per i giovani. Una generazione crebbe, lavorò in fabbrica e negli uffici, studiò, ballò il rock and roll e passò... e il mestiere si perse.

Lʼuomo dovette arrivare sulla Luna e dovette passare anche Woodstock prima che un giovane studente del politecnico di Torino, nel 1970, si trovasse a scarnificarsi le dita tra i sassi della valle dʼAyas alla ricerca di qualche residuo dʼoro dimenticato nei detriti scartati dalle miniere di Brusson. Il ragazzo di allora è lʼautore di questo articolo e quindi chi scrive può, dʼora in avanti, raccontare i fatti in prima persona.

Ero sempre insieme a mio zio a cercare minerali per le nostre collezioni. Negli anni successivi sullʼEvançon ci andammo a più riprese, trovammo alcuni campioni dʼoro dendritici, il maggiore recuperato nel 1972 direttamente nel torrentello che percorre la vecchia discarica della miniera, è illustrato in figura 1.

Campione Brusson

Qui i meccanismi di deposito e accumulo non esistono, la pezzatura e la forma del pietrame è oltremodo disomogenea, la pendenza troppa, lʼacqua poca per portare in sospensione lʼoro, i ritrovamenti sono casuali, occorre fortuna. In figura 2, vedete alcuni frammenti recuperati alla confluenza del ruscelletto con lʼEvançon e un campione nativo su quarzo.

Campioni Evançon

In figura 3, un campione dʼoro finissimo proveniente dalla pirite aurifera della miniera vicina.

oro pirite

Qualche soddisfazione, ma troppo poco: nel primo caso, per i campioni legati al quarzo, ritrovamenti fortuiti, nel secondo difficile la separazione dalla pirite.

Volevamo di più, le miniere erano pericolose, difficilmente accessibili e vietate. Ci spostammo a valle. Ci documentammo, disegnai e feci realizzare uno sluico, una canaletta (buone intenzioni ma progetto sbagliato) e per un paio di mesi raccogliemmo le pagliuzze dʼoro che riuscivamo a vedere, più per caso che altro, con un paio di pinzette da francobolli (orrore!). Oggi vedo che molti usano delle piccole pompette aspiranti (orrore!): lʼoro si deve raccogliere approfittando del suo peso specifico, magari scoprirlo nella batea con un consumato gesto finale del polso, nascosto sotto lʼultimo cucchiaino di sabbia pesante, e infine farlo “saltare” verso il bordo, altrimenti che gusto cʼè?

Insomma non andava bene, cominciammo ad aggirarci per i paesi del Canavese in cerca di know how.

Fu così che, involontariamente, iniziai a confrontarmi con una realtà nostalgica che mai avrei immaginato e che assumeva di volta in volta apparenze diverse: nei paesi e nelle osterie. A volte erano mani nodose avvolte attorno al vetro di un bicchiere con un dito di vino sul fondo, altre volte la incontravo sotto un portico, in compagnia di un gatto quasi randagio, di quelli che una casa lʼavrebbero anche ma se ne fregano tanto sono indipendenti, oppure sotto il pergolato di una cascina in compagnia dei nipoti, lì in mezzo a questi ritagli di vita quotidiana di paese, ritrovai la generazione precedente a quella che era andata via.

Ritrovai i vecchi cercatori.

Tra i sopravvissuti di quei contadini che si erano convertiti a un mestiere strano, saltuario, che doveva ubbidire ai capricci del fiume, trovai parecchia rassegnazione dovuta allʼetà: i pochi, pochissimi ancora in vita erano, infatti, tutti ultraottantenni. Trovai reticenza: come potersi fidare di qualcuno venuto dalla città a chiedere, a parlare di cose passate, di luoghi riservati e segreti. E, alla fine, trovai nostalgia. Trovai un lampo di voglia e di curiosità celato dietro occhi ormai velati e trovai empatia.

Si chiamava Paolo.

Fu allora che trovai il know how.

(segue...)


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